Egiziani, marocchini, ivoriani, bengalesi, tunisini: sono la manodopera che carica e scarica tonnellate di merce ogni giorno, a ritmi forsennati e con paghe da fame. La caratteristica che accomuna questi lavoratori è essere "soci" di cooperative che non hanno nulla a che vedere con quelle riconosciute dalla Costituzione. Al contrario, si tratta di società che scavalcano i vincoli da lavoro subordinato costringendo i dipendenti ad associarsi
MILANO - È l'alba, e stanno tornando a casa dopo dieci, dodici ore di lavoro. Sono i facchini del polo logistico di Carpiano, piccolo comune a sud di Milano. Immersi nelle giacche da lavoro, con le scarpe antinfortunistiche ancora ai piedi, aspettano immobili la corriera delle sei e quarantacinque, che li lascerà alla stazione del passante ferroviario di Melegnano. Egiziani, marocchini, ivoriani, bengalesi, tunisini: sono loro la manodopera che carica e scarica tonnellate di merce ogni giorno, a ritmi forsennati e con paghe da fame. Se la logistica - il settore dell'economia che muove le merci - è lanciata a razzo nel futuro dalla globalizzazione, le condizioni di lavoro che produce, almeno in Italia, sono ottocentesche. I facchini fanno una vita durissima, che pochi italiani riuscirebbero a sopportare. Mustapha, invece, ha dovuto resistere per cinque anni: "Andavo a lavorare dalle sei di pomeriggio alle sei di mattina, cinque giorni su sette", racconta. "Capitava anche di tirare fino alle otto o alle nove. Una volta preso il ritmo, non riesci più a dormire la notte". Mustapha viene dal Marocco, ed è in Italia dal 1998. Oggi non lavora più a Carpiano, ma nel magazzino Dhl di Liscate, periferia Est di Milano.repubblica.it