L’Italia è in guerra da molti
anni. Ne parlano solo quando un ben pagato professionista ci lascia la pelle:
un po’ di retorica su interventi umanitari e democrazia, Napolitano che saluta
la salma, una bella pensione a coniugi e figli.
È una guerra su più fronti,
che si coniuga nella neolingua del peacekeeping, dell’intervento umanitario, ma
parla il lessico feroce dell’emergenza, dell’ordine pubblico, della
repressione.
Gli stessi militari delle
guerre in Bosnia, Iraq, Afganistan, gli stessi delle torture e degli stupri in
Somalia, sono nei CIE, nelle strade delle nostre città, sono in Val Susa.
Guerra esterna e guerra
interna sono due facce delle stessa medaglia. Lo rivela l’armamentario
propagandistico che le sostiene. Le questioni sociali, coniugate sapientemente
in termini di ordine pubblico, sono il perno dell’intera operazione.
Hanno applicato nel nostro
paese teorie e tattiche sperimentate dalla Somalia all’Afganistan.
Se la guerra è filantropia
planetaria, se condizione per il soccorso sono le bombe, l’occupazione
militare, i rastrellamenti, se il militare si fa poliziotto ed insieme sono
anche operatori umanitari il gioco è fatto.
L’opposizione alla guerra,
che in altri anni fa ha riempito le piazze di folle oceaniche, si è lentamente
esaurita, come le bandiere arcobaleno, che il sole e la pioggia hanno stinto e
lacerato sui balconi delle case.
La mera testimonianza, la
rivolta morale non basta a fermare la guerra, se non sa farsi resistenza
concreta.
Negli ultimi anni l’opposizione alla guerra qualche volta è riuscita a saldarsi con l’opposizione al militarismo: il movimento No F35 a Novara, i No Tav che contrastano l’occupazione militare in Val Susa, i no Muos che si battono contro le antenne assassine a Niscemi. Anche nelle strade delle nostre città, dove controllo militare e repressione delle insorgenze sociali sono la ricetta universale c’é chi non accetta di vivere da schiavo.
Negli ultimi anni l’opposizione alla guerra qualche volta è riuscita a saldarsi con l’opposizione al militarismo: il movimento No F35 a Novara, i No Tav che contrastano l’occupazione militare in Val Susa, i no Muos che si battono contro le antenne assassine a Niscemi. Anche nelle strade delle nostre città, dove controllo militare e repressione delle insorgenze sociali sono la ricetta universale c’é chi non accetta di vivere da schiavo.
Le radici di tutte le guerre
sono nelle industrie che sorgono a pochi passi dalle nostre case.
Chi si oppone alla guerra,
senza opporsi alle produzioni di morte, fa testimonianza ma non impedisce i
massacri.
L'Alenia è uno dei gioielli
di Finmeccanica, il colosso armiero italiano.
La “missione” dell’Alenia è
fare aerei. I velivoli militari sono il fiore all’occhiello di questo colosso.
Nello stabilimento di Caselle Torinese hanno costruito gli Eurofighter Thypoon,
i cacciabombardieri made in Europe, e gli AMX. Le ali degli F35, della
statunitense Loockeed Martin, sono costruite ed assemblati dall'Alenia.
Un business milionario. Un
business di morte.
Per fermare la guerra non
basta un no. Occorre incepparne i meccanismi, partendo dalle nostre città, dal
territorio in cui viviamo, dove ci sono caserme, basi militari, aeroporti,
fabbriche d’armi, uomini armati che pattugliano le strade.
Un gruppo di antimilitaristi
di Torino, delle Valli di Lanzo e del resto del Piemonte ha deciso di
cominciare una campagna, che collegandosi con quella dei No F35 di Novara,
metta sabbia nel motore del militarismo.
Lunedì 2 giugno ore 10 -
presidio con banchetti, musica, interventi, in piazza Boschiassi a Caselle torinese-
Interventi su F35,
occupazione militare del territorio dall’Afganistan alla Val Susa, passando per
i CIE e i quartieri popolari di Torino.
A fine mattinata il presidio
diventa itinerante per concludersi alla rotonda d'ingresso al paese dove
campeggia un bombardiere dell'Alenia.
Antimilitaristi di Torino,
Valli di Lanzo e del resto del Piemonte