Ancora «schiave della monnezza» proprio come nel 2008 alla Star Reciclyng nella zona industriale di Padova. Di nuovo donne marocchine, piegate otto ore sui rifiuti a caccia della plastica riciclabile. Sempre lavoro “coop”, l’anticamera del Jobs Act, in un capannone grigio a San Bortolo, periferia di Monselice, angolo al confine con l’eterna depressione del Polesine.
«Sono stata licenziata soltanto per avere difeso un mio diritto», sintetizza Lubna Belhouidue, 34 anni con un figlio di 11. Da dieci anni si guadagna da vivere alla Nek, trasformando le gigantesche “torri” di materiale indistinto che campeggiano nel cortile. Devono diventare come le mega-balle ordinate vicino al cancello a seconda del colore, del tipo di plastica e delle procedure di “rivitalizzazione”. Un business ecologico che si fonda sullo sfruttamento selvaggio della mano d’opera femminile migrante.
Funziona (e bene), finché le “schiave” non si ribellano all’ennesima umiliazione. Allora si scopre davvero il profilo dei prenditori post-moderni, come Marco Zese — 54 anni, di Santa Maria Maddalena, frazione di Occhiobello, 11 mila anime in provincia di Rovigo — svezzati dal terzo settore nel mercato assistito, che spazia dalla logistica alle pulizie industriali o dal verde ai rifiuti.
Lubna è una delle 24 magrebine licenziate in tronco che presidiano il “loro” lavoro. Zese è il padre-padrone della cooperativa Libera fin dal 27 febbraio 2004. Lei ha osato scioperare; lui ha replicato da ras. Una “schiava” del Nord Est che sfida l’icona del Duemila. Lei trova lo stipendio in un mare di guano, che nasconde l’oro per il “manager” della plastica grazie a Confcooperative e al Consorzio Ciclat.