- il 17 maggio 2013 è nata ADL Varese - Democrazia, Trasparenza, Autonomia e Coerenza non devono essere solo delle parole vuote - ADL Varese non vuole essere ne più grande ne più bella ne più forte, ma semplicemente coerente -

- nel 1992 nascono FLMUniti Varese e CUB Varese, contemporaneamente nascono FLMUniti Nazionale e CUB Confederazione Nazionale -

- nel 2010 tutte le strutture di categoria della CUB Varese insieme a SDL Varese e RDB Varese si fondono e danno vita a USB Varese -

- nel 2013 USB Varese delibera a congresso l'uscita da USB e la nascita di ADL Varese mantenendo unite le precedenti strutture ex SDL Varese ex RDB Varese ex CUB Varese - -

venerdì 18 luglio 2014

La lotta dei Facchini è la lotta di tutti e tutte! Sabato 26 luglio 2014 giornata di lotta Nazionale

Ogni giorno gli organi di stampa non mancano mai di raccontarci quanto politici, industriali ed editorialisti siano preoccupati della situazione di emergenza in cui versa il paese: disoccupazione al 13%, quella giovanile oltre il 40%, crollo dei redditi medio-bassi, perdita di potere d’acquisto delle famiglie… Situazioni drammatiche che obbligano a risposte urgenti che siano in grado di fronteggiarle: per la borghesia è in gioco il mantenimento della pace sociale e la tenuta dell’economia nazionale. Come?
Per cominciare con le due parti del cosiddetto “Jobs Act” che, almeno nelle dichiarazioni dello stesso Governo, rappresenta una delle prime misure volte a far fronte a tale emergenza e a “generare nuova occupazione”; questo, attraverso un aumento della flessibilità in entrata e, quindi, un utilizzo indiscriminato dei contratti a tempo determinato e dell’apprendistato, e una maggiore flessibilità in uscita, dunque licenziamenti più facili e misure che faciliteranno ai padroni la possibilità di sbarazzarsi dei propri dipendenti.
Dovremmo quindi adeguarci e considerare normale essere alla mercé di chi ci garantisce un luogo in cui essere sfruttati o ci consegna alla disoccupazione quando non gli serviamo più.
Per chi è costretto a lavorare per vivere la “soluzione” alla crisi non significa nient’altro che il suo imporsi permanente: se ricattabilità e miseria di chi paga maggiormente il prezzo della crisi sono ingiustificabili, queste diventano paradossalmente la giustificazione per eliminare le pur deboli protezioni di cui gode chi è ancora in qualche modo tutelato; e anche gli accordi sulla rappresentanza sindacale sottoscritti con le confederazioni mirano a eliminare ogni opposizione dei sindacati di base ad ogni peggioramento delle condizioni dei lavoratori. Con la retorica dei ‘garantiti’ privilegiati e dell’equità si equilibrano al ribasso le condizioni di tutti i lavoratori e le lavoratrici.
Competitività, una sempre più spietata guerra tra poveri costretti a scavalcarsi l’un l’altro per garantirsi le briciole elargite dai padroni, che grazie a questa politica avranno sempre più occasioni di investire e di sfruttare manodopera a basso costo. Produttività, lavorare di più e in meno anziché andare a una riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, un salario medio garantito ai disoccupati, la riduzione degli anni di lavoro per andare in pensione con un salario adeguato al costo della vita ecc.
Le classi dirigenti vorrebbero che assistessimo impotenti a questo spettacolo. Al massimo dovremmo dirottare il nostro dissenso e la nostra indignazione verso il teatrino elettorale di una politica a sua volta “impotente”, con sempre crescenti vincoli economici, espressione degli interessi della classi dominanti a scala internazionale. Il potere di quei padroni e padroncini che hann tremato negli ultimi anni di fronte alle vigorose lotte dei lavoratori della Logistica. Un potere che diviene come una “tigre di carta” di fronte allo sviluppo della lotta di classe che lo mette in discussione, come è avvenuto di fronte alla lotta messa in campo dai facchini in questi ultimi anni.
Il ciclo virtuoso della logistica
Da oltre 6 anni, a partire dalla Bennet di Origgio e dal Mercato ortofrutticolo di Milano, si vanno sviluppando le lotte nei magazzini della logistica, con una grande partecipazione di facchini e corrieri e altre figure professionali; magazzini in cui vigeva (e nella gran parte vige ancora) un incredibile sfruttamento retto da un sistema di “subappalti” tramite cooperative, vero e proprio ‘caporalato’ che consente ai padroncini di organizzare il lavoro non applicando nemmeno i contratti nazionali, con poche tutele normative e contrattuali, con la turnazione degli orari di lavoro e la ripartizione delle ore lavorate – e quindi del salario – effettuata in maniera arbitraria e discriminatoria. Le cooperative, grazie alla copertura delle multinazionali committenti, ricorrono spesso al lavoro a chiamata ed arrivano a volte al vero e proprio furto delle ore di lavoro.
D’altronde quello della logistica è un settore strategico per il capitale, ed è fondamentale per il padronato spremere i lavoratori che ne fanno parte per risparmiare il più possibile sui costi: negli ultimi trent’anni, da quando le grandi aziende produttive hanno cominciato ad affidare a terzi la gestione dei magazzini e delle scorte, il mondo della logistica si è notevolmente espanso, coinvolgendo attualmente 450.000 lavoratori ufficialmente riconosciuti e fino a 700.000 reali.
L’esplosione del settore della logistica è uno dei pilastri su cui si è fondata la capacità del capitale di delocalizzare, di trasferire le attività produttive in ogni angolo del pianeta che consentisse le migliori condizioni di profittabilità, che per lo più significa manodopera a basso costo grazie anche alla complicità dei sindacati confederali e a regimi fiscali favorevoli. Paradossalmente, quindi, la mobilità del capitale si sostiene a sua volta su una forte rigidità: nel settore della logistica, in cui il ‘posizionamento’ è centrale, la geografia non scompare.
Così il sogno del capitale di sfruttarci dove vuole o ricattarci con la minaccia di licenziarci si è trasformato in un suo incubo: le lotte dei facchini (tre scioperi nazionali nell’ultimo anno e mezzo) abbracciano ormai quasi tutto il territorio nazionale (specialmente quello del centro-nord) grazie al lavoro di organizzazione del Si Cobas e dell’ADL Cobas, e al supporto delle assemblee e reti di sostegno militante alle lotte. Lo sviluppo del lavoro di massa sindacale e delle assemblee di sostegno, ma soprattutto lo straordinario protagonismo dei lavoratori attraverso gli scioperi, ha permesso così di conseguire importanti risultati concreti: contratti di secondo livello che impongono il pagamento al 100% dei giorni di malattia ed infortunio, ticket restaurant, aumento delle buste paga grazie al totale pagamento degli istituti e delle ore contrattuali, diminuzione dei carichi di lavoro, cessazione di ogni discriminazioni sul posto di lavoro, eliminazione dei caporali che nei magazzini hanno atteggiamenti antioperai.
Per il fatto di avere innescato un ciclo “virtuoso” e in espansione – in grado tra le altre cose di mettere in discussione il ricatto del permesso di soggiorno vincolato al contratto di lavoro che grava sulla maggior parte di questa manodopera per lo più straniera – queste lotte sono oggi bersaglio di una repressione scientifica e feroce da parte di tutti gli strumenti di cui il padronato dispone. Un caso paradigmatico è quello dell’Ikea di Piacenza: stampa locale, forze politiche parlamentari, sindacati confederali, sindaco e istituzioni, padroni delle cooperative, grandi multinazionali e forze dell’ordine hanno fatto “fronte comune” contro i facchini più attivi con contro-presidi di crumiri, allontanamenti e ritorsioni di ogni tipo.
Ma se loro fanno fronte comune i facchini non sono stati certo a guardare.
Il facchino paura non ne ha!
Già a metà ottobre 2012 i facchini delle cooperative del consorzio CGS che lavoravano per lo stabilimento Ikea di Piacenza entrarono in sciopero contro la miseria delle loro buste-paghe e per una più equa distribuzione dei carichi di lavoro: alcuni operai erano pagati 400€ al mese perché tenuti a riposo come misura discriminatoria, mentre altri arrivano ai 1200€ perché paradossalmente premiati con ore di lavoro straordinarie. Una lotta per il semplice rispetto del CCNL e dei più elementari diritti che vide sin da subito la ferrea opposizione di CGS ed IKEA, che decisero che nulla si potesse accordare ai lavoratori. E per piegarne la resistenza intrapresero azioni punitive contro alcuni di loro, tra sospensioni, minacce di trasferimenti e licenziamenti.
Seguirono mesi di lotta da parte dei lavoratori, che non si lasciarono intimidire, anzi riuscirono a coinvolgere e a trovare il sostegno di una rete di solidarietà che vide la partecipazione diretta di molti lavoratori del comparto logistico organizzati dal Si Cobas (Ikea, Tnt, Gls, Ortofin, Dhl) a stretto contatto con militanti venuti da Milano, Torino, Genova, Bologna, Piacenza e Brescia.
Messa alle strette, l’azienda minacciò addirittura di riposizionare i volumi e trasferire alcune commesse con conseguente licenziamento di più di cento lavoratori, proprio “per colpa delle proteste”. Questo si rivelò ben presto più un tentativo di utilizzare l’arma del ricatto che un’opzione realmente praticabile nel breve termine. Il nodo piacentino risulta infatti centrale per la logistica essendo crocevia di traffici commerciali internazionali, snodo di importanti infrastrutture per il trasporto delle merci, al centro del traffico autostradale e ferroviario, collegato direttamente con il porto di Genova e con sei aeroporti nel raggio di poche centinaia di chilometri.
Di fronte alla determinazione e la lotta l’Ikea fu costretta a reintegrare i facchini che, dopo estenuanti trattative che coinvolsero anche i vertici delle istituzioni locali, tornarono a lavoro nel gennaio 2013.
A questa vittoria contribuì innanzitutto la solidarietà dei lavoratori dei cobas (TNT, GLS per citare i più importanti di Piacenza ) che, attraverso una politica fondata su una precisa conoscenza del ciclo produttivo e di ogni suo singolo passaggio, ha saputo ridurre ogni danno per sé e massimizzare le perdite della la controparte. La capacità inoltre di indicare chiaramente la controparte (cioè Ikea stessa e non le cooperative del sistema bizantino di subappalti con cui l’azienda svedese occultava le sue responsabilità) ha permesso anche la costruzione di reti di solidarietà che avessero un obiettivo tangibile sul quale misurarsi. Aver individuato l’IKEA come principale controparte ha permesso l’”attivizzazione” anche di quanti non potevano essere presenti fisicamente a Piacenza.
La capillarità della diffusione degli store IKEA sul territorio nazionale italiano, simbolo della forza dell’azienda, si è prestata all’organizzazione di volantinaggi, presidi e, in alcuni casi, di veri e propri picchetti, capaci di interferire con le vendite in un periodo, quello pre-natalizio, in cui gli introiti per gli esercizi commerciali sono massimi. Grazie a vari siti internet e ai social network si è inoltre potuto incidere sull’immagine che l’IKEA cerca di dare di sé, quella di promotrice di diritti e democrazia.
Tutto questo contribuì ad un’importante vittoria dei lavoratori.
Adesso l’azienda svedese ha intenzione di vendicarsi: a inizio di maggio di quest’anno la cooperativa San Martino, operante nel magazzino IKEA di Piacenza, ha aperto la controffensiva padronale sospendendo 33 facchini fra i più attivi e sindacalizzati. La motivazione addotta è l’ingiustificato blocco del lavoro che avrebbero messo in pratica circa due settimane prima. Nella realtà, i facchini hanno compreso che si è trattato di una reprimenda bella e buona verso il sindacato SiCobas, considerato scomodo visto che il blocco incriminato fu determinato dalla negazione di un’assemblea sindacale unitaria degli impiegati nel magazzino. Subito viene, quindi, indetto lo stato d’agitazione, con l’adesione della gran parte dei lavoratori. Viene quindi strappato un accordo in Prefettura che prevedeva la reintegrazione di questi lavoratori, che viene però totalmente ignorato dalla cooperativa, che addirittura licenziava 24 di loro.
Interviene quindi immediatamente la solidarietà di lavoratori di altri stabilimenti e di numerosi attivisti di Piacenza e del centro nord, per dare forza all’arma principale di questa battaglia: il blocco della circolazione delle merci. Altrettanto velocemente si costruisce una rete di solidarietà in grado di coinvolgere più città attraverso volantinaggi e presidi.
A fronte di una tale capacità di mobilitazione, i padroni sono stati costretti ad organizzarsi in un vero e proprio “partito IKEA”, come lo ha definito il SiCobas: un blocco sociale monolitico di istituzioni, forze politiche di governo ed “opposizione” e sindacati confederali che puntualmente si esprimono e muovono iniziative tese a criminalizzare la lotta e la resistenza dei lavoratori.
UNITI ED INFLESSIBILI CONTRO L’IKEA
RAFFORZIAMO L’UNITA’ D’AZIONE VERSO UN FRONTE PIÙ AMPIO DEI LAVORATORI IKEA E PER UN’INIZIATIVA POLITICA VERSO I PROLETARI DEGLI ALTRI SETTORI LAVORATIVI, CONTRO L’ATTACCO ALLE LORO CONDIZIONI DI VITA E DI LAVORO.
CON QUESTO COMUNICATO CHIEDIAMO AL FRONTE DEI COMPAGNI SOLIDALI UN FORTE IMPEGNO CON I MEZZI A LORO DISPOSIZIONE PER INDEBOLIRE IL FRONTE BORGHESE
Sabato 26 luglio 2014, in tutte le parti d’Italia dove siamo presenti organizziamo dei presidi davanti ai negozi Ikea.