«Dentro ci sono
lavoratori come precari, stagionali, nuclei familiari con minori con un unico
soggetto che apporta reddito e che si trova in queste
condizioni» gli fa eco Vera La Monica, rappresentante Cgil. Che riporta al
centro un tema fondamentale, quello della povertà non solo di chi è a spasso, ma anche e
soprattutto di chi lavora regolarmente, i cosiddetti
working
poor, o
di chi entra e esce di continuo dal mercato del lavoro. A tutti loro il reddito
percepito non basta. «C'è un impoverimento generale del mondo
del lavoro» afferma, e sarebbe sbagliato sacrificare una politica per l'altra:
«Sono necessarie entrambe», sia quelle contro la povertà assoluta che
un «welfare di protezione per chi esce dal mondo del lavoro».
Il
sospetto è anche che le statistiche ufficiali non riescano a intercettare
un'altra grande fetta della società che annaspa: i giovani poveri che pur con un
impiego vengono mantenuti dalle proprie famiglie. Magari centinaia di migliaia di trentenni che
non ce la fanno con i propri guadagni, con Isee bassissimi e aiutati dai
genitori sessanta-settantenni per raggiungere livelli di vita simili a quelli su
cui potevano contare prima di rendersi (si fa per dire)
indipendenti. Poco importa che sia attraverso il pagamento
dell'affitto o il regalo della casa. Perché, attenzione, «non ci si riferisce al
fenomeno d’impoverimento che tocca una parte ben più ampia della popolazione,
costringendola a rinunciare ad alcuni consumi che desidererebbe potersi
permettere (qualche apparecchio tecnologico o la possibilità di andare fuori
città in estate) senza però impedire la fruizione dei beni e dei servizi
essenziali» come scritto nel report. Ma di un disagio ben più
profondo. «È il costo vero di anni di non crescita, ed è ciò che dovrebbe
interessare più di tutto se manca la possibilità di una vita degna e
libera» insiste Magatti.
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