Il processo è noto, spiega l'indagine: "Per abbattere i costi e incrementare i profitti le imprese delocalizzano le loro produzioni in paesi dove possono reperire salari da fame, infime condizioni di lavoro e assenza di organizzazioni sindacali.Il settore dell’abbigliamento è tra i più attivi in questo campo: l’utilizzo di manodopera a bassi salari e diritti in Cina o in Bangladesh, come in Romania o Moldavia ne sono un esempio lampante. Le imprese multinazionali, spesso incentivate dai governi locali, comprano stabilimenti o ne costruiscono di nuovi, ricattano i lavoratori facendo leva sui loro bisogni di base; così possono produrre le loro merci a prezzi ridicoli incassando lauti profitti. La costruzione della filiera si basa sull’idea che è sempre possibile trovare manodopera a bassi salari da sfruttare a proprio vantaggio. Mentre una massa crescente di altri lavoratori sempre più impoveriti, è obbligata a tapparsi il naso e a comprare vestiti e calzature a basso costo in una spirale senza fine di corsa verso il basso".
Ora la domanda è: "Ma se improvvisamente ci accorgessimo che quei disperati siamo noi?
redattoresociale.it