L’indagine della Dia di Roma sul traffico illegale di indumenti gettati nei cassonetti gialli, parla il ricercatore Pietro Luppi (Occhio del riciclone). “Chi ha provato a creare una filiera alternativa ha avuto guai seri”. Un giro d’affari da 600 milioni
16 gennaio 2015
MILANO - Gli indumenti usati puzzano di camorra. L'inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Roma, rivelata ieri, che ha portato a 14 ordinanze di arresto con l'accusa di aver gestito un traffico illegale di indumenti usati raccolti tramite i cassonetti gialli, è solo la punta dell'iceberg. Tanto che nel rapporto della Direzione nazionale antimafia, pubblicato nel gennaio 2014, si legge che “buona parte delle donazioni di indumenti usati che i cittadini fanno per solidarietà, finiscono per alimentare un traffico illecito dal quale camorristi e sodali di camorristi traggono enormi profitti”.
Una frase che getta un'ombra pesante sulle tante raccolte che le onlus lanciano in ogni parte d'Italia. Il problema sta soprattutto nella filiera. Perché nella stragrande maggioranza dei casi, gli abiti raccolti vengono venduti a imprese specializzate: queste ultime poi li selezionano, li igienizzano e una parte degli indumenti ritornano sul mercato (sia Italiano che estero) e una parte viene riciclata come tessuto.