«Je suis Erri». Sorrisi. Strette di mano, abbracci e richieste di autografi. Quando Erri De Luca si è presentato nell’aula del tribunale di Torino in cui verrà processato per istigazione a delinquere, ha trovato una piccola folla ad accoglierlo. Non solo No Tav, ma anche lettori, amici, cittadini «comuni» armati di cartelli che rimandano allo slogan nato dopo la strage di «Charlie Hebdo» per rivendicare il diritto alla libertà di espressione. Lo scrittore è arrivato con oltre un quarto d’ora di anticipo .
«Proprio io che sono napoletano», ha detto scherzando.
Nell’attesa, ha firmato dediche e ha raccontato perché ribadisce il diritto di poter dire che «La Tav va sabotata», la frase per cui è accusato. «Conosco bene il significato della parola sabotaggio – ha spiegato – l’ho praticato qui a Torino, negli anni Ottanta. Per 37 giorni e 37 notti sono stato alla Fiat Mirafiori, dove con gli operai abbiamo bloccato la produzione». «Il verbo sabotare è nobile – ha sottolineato De Luca – ha un significato molto più ampio dello scassamento di qualcosa. Lo usava anche Gandhi. Io sostengo che la Tav vada sabotata. Anche un ostruzionismo parlamentare è un sabotaggio rispetto a un disegno di legge. Ma quello che riconoscono a me, non lo riconoscono a Bossi o Berlusconi. Eppure io valgo per uno. Non ho un partito. Non ho una sezione in cui andare a sobillare. Non sono aderente a nulla. Io sono un cittadino della Val di Susa».
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