Nel
2016, la commissione Attività produttive della Camera ha consegnato la sua
indagine conoscitiva sull’Industria 4.0, quella dove l’automazione
sostituisce il lavoro umano per intenderci, e nel lungo elenco dei Paesi
“eccellenti” in questo campo mancava proprio l’Italia. C’erano gli Usa e il
Giappone, ma anche il Belgio e la Francia, nonché la Germania, più
eccellente degli altri, almeno in Europa. La nostra situazione è poi
migliorata, quando nella scorsa legge di Stabilità sono stati inseriti incentivi
alle aziende per l’acquisto di tecnologie avanzate. Ma l’Italia, pur vantando
punte di diamante nella robotica, rischia di non salire in tempo su un treno che
cambierà l’economia e la società del futuro prossimo: “Il 14,9% del totale degli
occupati, pari a 3,2 milioni, potrebbe perdere il posto di lavoro entro 15
anni”, prevede un recente studio The European
House-Ambrosetti.
Parte
da qui l’inchiesta “Licenziati da un robot”, in copertina del nuovo
numero di FqMillenniuM, il mensile del Fatto diretto da Peter Gomez, in edicola
da domani. Dove si racconta che le macchine non “rubano” il lavoro alle persone
– anzi, i Paesi più avanti mostrano tassi di disoccupazione minore – a patto che
il processo sia governato dalla politica. In modo che gli impieghi cancellati
dall’avvento di macchine e software sempre più sofisticati possano essere
rimpiazzati da mansioni più qualificate. Anche qui, però, i numeri elaborati da
FqMillenniuM restituiscono un quadro preoccupante: il valore aggiunto generato
dall’industria negli ultimi dieci anni è diminuito in Italia del 2,1%, in
Germania è aumentato del 3,8; la quota di Pil investita in ricerca e sviluppo è
stata il 2,8% dalle parti di Merkel e appena l’1,3 dalle parti di
Renzi-Gentiloni.