La crisi del capitalismo deriva da due dei suoi elementi basici. Il primo è la crescita perpetua. La crescita economica è l’effetto aggregato della ricerca di accumulare capitale e fare profitto. Il capitalismo non regge senza crescita, ma si deve riconoscere che la crescita perpetua su un pianeta finito deve portare inesorabilmente a una calamità ambientale.
Chi difende il capitalismo dice che, se il consumo passa dai beni ai servizi, la crescita economica può essere indipendente dall’uso delle risorse materiali. La scorsa settimana un articolo sulla rivista New Political Economy, Jason Hickel e Giorgos Kallis, hanno ragionato su questa affermazione e hanno scoperto che è vero che nel 20° secolo si è verificato un disaccoppiamento relativo (il consumo di risorse materiali è cresciuto, ma non tanto rapidamente come la crescita economica), nel 21° secolo c’è stato un riavvicinamento: comunque ad oggi il crescente consumo di risorse ha raggiunto o superato il tasso della crescita economica. Il disaccoppiamento assoluto, necessario per evitare la catastrofe ambientale (una riduzione dell’uso di risorse materiali) non è mai stato raggiunto e sembra che questo sia impossibile se la crescita economica continua. La crescita verde è un’illusione.
Un sistema basato sulla crescita perpetua non può funzionare se non esistono zone di periferia e zone di esteriorizzazione. Ci deve sempre essere una zona di estrazione – una zona da cui si ricavano i materiali senza pagarli per quello che veramente valgono – e una zona di smaltimento, dove i costi della produzione vengono scaricati sotto forma di rifiuti e di inquinamento, così la scala dell’attività economica è destinata a salire fino a quando il capitalismo non avrà inquinato qualsiasi cosa, dall’atmosfera agli abissi degli oceani e l’intero pianeta sarà diventato una zona di sofferenza: tutti noi ormai già abitiamo alla periferia di quella macchina che produce profitto.