La conservazione del Mare Adriatico può non essere soltanto una questione limitata nei confini nazionali. Sullo specchio del Mare Nostrum, bersagliato da discutibili interessi petroliferi, si riverberano istanze di protezione che vanno al di là delle politiche dei palazzi romani o degli interessi locali.
La tutela del Mediterraneo risale al 1975, quando sull’iniziativa del Programma ambientale delle Nazioni Unite, i rappresentanti degli stati costieri del Mediterraneo hanno costituito a Barcellona una struttura chiamata Mediterranean Action Plan. L’obiettivo era quello di fermare la degradazione veloce del mare, un punto necessario per la sopravvivenza dell’eredità mediterranea.
Un anno più tardi, l’adozione della Convenzione di Barcellona, i cui sei protocolli legali forniscono un profilo dettagliato delle misure che devono essere approntate per raggiungere questo obiettivo. Nel 1995 degli emendamenti alla Convenzione hanno introdotto il principio di precauzione e insieme, come nuovo obiettivo finale, l’eliminazione delle fonti di inquinamento.
I 20 paesi mediterranei e l’Unione Europea costituiscono le parti contraenti della Convenzione di Barcellona. Ma è soltanto la Tunisia ad aver ratificato tutti i protocolli: il resto è molto in ritardo. Il Principato di Monaco, la Spagna e l’Italia devono ancora ratificare i protocolli denominati Hazardous Waste (sulla movimentazione transfrontaliera di rifiuti pericolosi e loro smaltimento) e Offshore Protocol (sulla protezione dall’inquinamento derivante dall’esplorazione e dallo sfruttamento della piattaforma continentale sottomarino e del sottosuolo).
Allo stato attuale, l’unica efficace tutela del mare Adriatico dalle istanze di petrolizzazione – che superi i limiti della valutazione comparativa interna di sviluppo sostenibile, tendenzialmente poco trasparente e dalla visione molto ravvicinata agli interessi di settore o, per giunta, di pochi – può essere raggiunta attraverso l’acquisto dell’efficacia dell’Offshore Protocol.