- il 17 maggio 2013 è nata ADL Varese - Democrazia, Trasparenza, Autonomia e Coerenza non devono essere solo delle parole vuote - ADL Varese non vuole essere ne più grande ne più bella ne più forte, ma semplicemente coerente -

- nel 1992 nascono FLMUniti Varese e CUB Varese, contemporaneamente nascono FLMUniti Nazionale e CUB Confederazione Nazionale -

- nel 2010 tutte le strutture di categoria della CUB Varese insieme a SDL Varese e RDB Varese si fondono e danno vita a USB Varese -

- nel 2013 USB Varese delibera a congresso l'uscita da USB e la nascita di ADL Varese mantenendo unite le precedenti strutture ex SDL Varese ex RDB Varese ex CUB Varese - -

venerdì 26 giugno 2020

I contratti a tempo e la precarietà tornano in auge in tempo di Covid La precarietà del lavoro non crea occupazione la “flessibilità” comporta depressione dei salari e deflazione


Nonostante diminuisca l’aspettativa di vita l'età pensionabile continua a crescere e con i nuovi coefficienti di calcolo della pensione contributiva andremo a perdere altri soldi, allo stesso tempo i nostri salari perdono potere di acquisto e sovente gli aumenti contrattuali vengono barattati con servizi sanitari e previdenziali integrativi, il che poi induce a riflettere sul ruolo dei sindacati concertativi nella delegittimazione degli strumenti pubblici in materia di salute e pensione. E per quanto riguarda la precarietà contrattuale è di cattivo auspicio la decisione Governativa di rimuovere le causali per i contratti a tempo determinato. E' una vecchia e fallimentare politica economica credere che l'occupazione e l'economia possano trarre beneficio dalla precarietà, una idea figlia della nefasta cultura del disinvestimento pubblico in materia di ricerca e innovazione puntando tutto sulla riduzione dei costi del lavoro e delle tasse a carico dei datori di lavoro.  

In questi giorni stanno venendo a galla due verità ossia che i posti di lavoro persi per il Covid sono per lo piu' a tempo determinato (quelli indeterminati saranno probabilmente tagliati dopo la fine del divieto imposto per il Covid) e che le imprese premono per rimuovere ogni limite all'uso di questa tiplogia contrattuale. La seconda verità è data dal fatto che ancora una volta prevalgono le ragioni dell'impresa che ripropone flessibilità e precarietà come soluzioni per il rilancio del paese.

Confindustria vorrebbe fronteggiare la crisi con dosi ulteriori di precarizzazione del lavoro, ma la ricerca scientifica ha dimostrato che questa ricetta non favorisce l’occupazione e alimenta solo le disuguaglianze. Nei Paesi OCSE dal 1990 abbiamo assistito a un crollo medio degli indici di protezione dei lavoratori di oltre il 20% e a una riduzione della loro variabilità internazionale di quasi il 60%. Questa politica è stata sempre giustificata con lo stesso slogan: la precarizzazione dei contratti di lavoro non è piacevole ma è necessaria per stimolare le imprese ad assumere e ridurre così la disoccupazione, slogan che non ha solide basi scientifiche. Il 72% delle analisi pubblicate tra il 1990 e il 2019 non conferma che la flessibilità crea occupazione, una percentuale che addirittura sale all’88% se osserviamo gli studi tecnicamente più avanzati che sono usciti nell’ultimo decennio.

Il Fondo monetario internazionale, nel 2016, è giunto alla conclusione che le deregolamentazioni del lavoro “non hanno, in media, effetti statisticamente significativi sull’occupazione” e l’OCSE, nello stesso anno, ha ammesso che “la maggior parte degli studi empirici che analizzano gli effetti a medio-lungo termine delle riforme di flessibilizzazione del lavoro, suggeriscono che esse hanno un impatto nullo o limitato sui livelli di occupazione nel lungo periodo”.  Insomma, le stesse istituzioni che per anni hanno imposto flessibilità e precarietà, oggi ammettono che questa politica non crea posti di lavoro. L’evidenza mostra che i contratti precari rendono i lavoratori più docili, e quindi provocano un calo della quota salari e più in generale un aumento delle disuguaglianze.

L’idea che le tutele del lavoro rappresentino un ostacolo alla ripresa dell’occupazione non ha adeguate basi scientifiche anzi, insistendo con la precarizzazione dei contratti si corre il rischio opposto: una depressione dei salari tale da scatenare una deflazione da debiti. Se davvero Confindustria punta a recuperare margini di profitto con questa strategia retriva e fallimentare, bisogna augurarsi che nessuno la prenda in seria considerazione. Il capitalismo ha dato il peggio di sé da quando è venuto a mancare il pungolo della minaccia sindacale di cui non è più chiaro il ruolo sociale confuso ormai con quello della controparte.