Nonostante
diminuisca l’aspettativa di vita l'età pensionabile continua a crescere e
con i nuovi coefficienti di calcolo della pensione contributiva andremo a
perdere altri soldi, allo stesso tempo i nostri salari perdono potere di
acquisto e sovente gli aumenti contrattuali vengono barattati con servizi
sanitari e previdenziali integrativi, il che poi induce a riflettere sul
ruolo dei sindacati concertativi nella delegittimazione degli strumenti
pubblici in materia di salute e pensione. E per quanto riguarda la
precarietà contrattuale è di cattivo auspicio la decisione Governativa di
rimuovere le causali per i contratti a tempo determinato. E' una vecchia e fallimentare
politica economica credere che l'occupazione e l'economia possano trarre
beneficio dalla precarietà, una idea figlia della nefasta cultura del
disinvestimento pubblico in materia di ricerca e innovazione puntando tutto
sulla riduzione dei costi del lavoro e delle tasse a carico dei datori di
lavoro.
In questi giorni
stanno venendo a galla due verità ossia che i posti di lavoro persi per il
Covid sono per lo piu' a tempo determinato (quelli indeterminati saranno probabilmente tagliati dopo
la fine del divieto imposto per il Covid) e che le imprese premono per
rimuovere ogni limite all'uso di questa tiplogia contrattuale. La seconda
verità è data dal fatto che ancora una volta prevalgono le ragioni
dell'impresa che ripropone flessibilità e precarietà come soluzioni per il
rilancio del paese.
Confindustria
vorrebbe fronteggiare la crisi con dosi ulteriori di precarizzazione del lavoro,
ma la ricerca scientifica ha dimostrato che questa ricetta non favorisce
l’occupazione e alimenta solo le disuguaglianze. Nei Paesi OCSE dal 1990 abbiamo assistito a un
crollo medio degli indici di protezione dei lavoratori di oltre il 20% e
a una riduzione della loro variabilità internazionale di quasi il 60%. Questa
politica è stata sempre giustificata con lo stesso slogan: la
precarizzazione dei contratti di lavoro non è piacevole ma è necessaria per
stimolare le imprese ad assumere e ridurre così la disoccupazione, slogan che non ha solide basi
scientifiche. Il 72% delle analisi pubblicate tra il 1990 e il 2019 non
conferma che la flessibilità crea occupazione, una percentuale che addirittura
sale all’88% se osserviamo gli studi tecnicamente più avanzati che sono usciti
nell’ultimo decennio.
Il Fondo monetario internazionale, nel 2016, è giunto alla conclusione che le deregolamentazioni del lavoro “non hanno, in media, effetti statisticamente
significativi sull’occupazione” e l’OCSE, nello stesso anno, ha ammesso che
“la maggior parte degli studi empirici che analizzano gli effetti a medio-lungo
termine delle riforme di flessibilizzazione del lavoro, suggeriscono che esse
hanno un impatto nullo o limitato sui livelli di occupazione nel lungo
periodo”. Insomma, le stesse istituzioni che per anni hanno imposto
flessibilità e precarietà, oggi ammettono che questa politica non crea
posti di lavoro. L’evidenza
mostra che i contratti precari rendono i lavoratori più docili, e quindi
provocano un calo della quota salari e più in generale un aumento delle
disuguaglianze.
L’idea che le tutele del lavoro rappresentino un ostacolo alla ripresa
dell’occupazione non ha adeguate basi scientifiche anzi, insistendo con la precarizzazione dei contratti si corre il rischio
opposto: una depressione dei salari tale da scatenare una deflazione da debiti.
Se davvero Confindustria punta a recuperare margini di profitto con questa
strategia retriva e fallimentare, bisogna augurarsi che nessuno la prenda in
seria considerazione. Il capitalismo ha dato il peggio di sé da quando è
venuto a mancare il pungolo della minaccia sindacale di cui non è più chiaro il
ruolo sociale confuso ormai con quello della controparte.